Il futuro delle pensioni: cosa è cambiato con il Governo Meloni (dalla rivalutazione alle riforme del sistema previdenziale)

Il sistema pensionistico italiano rappresenta una delle colonne portanti dello Stato sociale e una delle principali voci di spesa pubblica. È un meccanismo complesso e stratificato, costruito attraverso decenni di riforme, correzioni e aggiustamenti che ne hanno modificato sia l’impianto normativo sia la percezione da parte dell’opinione pubblica. 

Non si tratta soltanto di un insieme di regole tecniche, ma di un pilastro del patto sociale tra Stato e cittadini. 

La previdenza pubblica, infatti, è obbligatoria e si fonda sul contributo dei lavoratori, che destinano una quota significativa del proprio reddito per maturare il diritto alla pensione futura, pari complessivamente, ad esempio, al:

  • 33% per i lavoratori dipendenti: in genere il 9,19% è a carico del lavoratore e il restante 23,81% a carico del datore di lavoro. Nel settore pubblico, tuttavia, le percentuali possono variare in base al comparto di appartenenza;
  • 24,48% per i commercianti.

Tuttavia, la previdenza pubblica italiana vive da anni sotto pressione. 

L’invecchiamento della popolazione, il calo delle nascite e la difficoltà di mantenere una crescita economica sostenuta mettono in discussione la tenuta del modello a ripartizione, in cui non vi sono concreti accantonamenti di denaro ma i contributi dei lavoratori attivi sono utilizzati immediatamente per pagare le pensioni correnti. 

In questo quadro, le decisioni politiche in materia previdenziale diventano delicate e controverse: da un lato occorre garantire pensioni coerenti e le tutele sociali, dall’altro è necessario mantenere l’equilibrio dei conti pubblici e rispettare i vincoli di bilancio europei.

Negli ultimi anni, il dibattito politico si è spesso concentrato sulla Legge Fornero, approvata nel 2011 in un momento di emergenza finanziaria. Ritenuta da molti un provvedimento troppo rigido, ha rappresentato però un punto di svolta per la sostenibilità del sistema. 

È proprio attorno al tema del “superamento della Fornero” che si sono concentrate le dichiarazioni programmatiche del centrodestra nella campagna elettorale del 2022. Inoltre, alla vigilia dell'insediamento del Governo Meloni,  la neo presidente dichiarava:

Ma quanto di quelle indicazioni è stato realmente tradotto in azioni concrete dal governo in carica?

Gli obiettivi elettorali: flessibilità e tutela del potere d’acquisto

Nelle fasi che hanno preceduto le elezioni, Giorgia Meloni aveva posto tra le priorità del suo programma pensionistico l’intenzione di superare la riforma Fornero

La promessa non era soltanto di natura simbolica, ma si inseriva in una narrazione politica fortemente radicata nell’opinione pubblica: restituire ai lavoratori la possibilità di scegliere quando andare in pensione, senza essere vincolati a requisiti percepiti come eccessivi.

Il concetto chiave era quello di “flessibilità in uscita”. 

Si trattava di permettere a chi aveva iniziato a lavorare presto, accumulando lunghe carriere, di accedere alla pensione prima delle finestre standard oggi previste. Questo avrebbe significato riconoscere, almeno parzialmente ma in modo strutturato, le differenze tra i vari percorsi lavorativi, distinguendo tra chi aveva svolto mansioni usuranti o lavoratori precoci e chi, invece, aveva carriere più brevi o frammentate.

Accanto alle misure pensate per agevolare chi si trovava ormai vicino alla pensione, la premier Meloni si era espressa anche con dichiarazioni rivolte alle future generazioni:

“Abbiamo cominciato a dare un segnale sulle pensioni di cui, diciamo così, non si è mai occupato nessuno. I governi hanno sempre dato priorità a chi era già in pensione […] soprattutto chi era prevalentemente nel sistema retributivo, ritenendo che chi fosse interamente nel contributivo, cioè le future pensioni, rappresentasse un problema da rinviare, di cui si sarebbe occupato qualcun altro.

Il problema è che questo atteggiamento sta creando, e continuerà a creare, squilibri e disparità che dal nostro punto di vista sono obiettivamente sbagliate”.

Accanto a ciò, un altro tema centrale nell’agenda del Governo Meloni riguardava la tutela del potere d’acquisto. 

L’inflazione “impazzita” del biennio 2022/2023 stava già iniziando a erodere il valore reale delle pensioni, riducendo la capacità di spesa soprattutto delle fasce più fragili. Il messaggio era chiaro: le pensioni non dovevano perdere valore a causa della dinamica dei prezzi, e lo Stato avrebbe dovuto garantire adeguati meccanismi di rivalutazione.

Queste promesse, rivolte a un elettorato numeroso e sensibile, avevano un forte impatto politico. 

Tuttavia, già allora, gli osservatori sottolineavano che la loro realizzazione concreta avrebbe incontrato ostacoli significativi legati ai vincoli di bilancio e alle tendenze demografiche.

Dalle parole ai fatti: le scelte del governo Meloni sulle pensioni

Con l’insediamento del governo Meloni, le attese su una svolta in materia previdenziale si sono immediatamente scontrate con la realtà economica. Le scelte adottate in questi anni hanno mostrato un approccio pragmatico, basato su correttivi temporanei piuttosto che su una riforma organica.

Quota 103 e la flessibilità parziale

In termini di flessibilità, la misura adottata è stata Quota 103, concepita sulla scia delle precedenti esperienze di Quota 100 e Quota 102. 

L’impianto è relativamente semplice e consiste nel permettere l’uscita dal lavoro a chi ha: 

  • almeno 62 anni di età
  • 41 anni di contributi.

La somma dei requisiti, appunto, raggiunge quota 103.

Fin dall’inizio, tuttavia, Quota 103 si è presentata come una misura temporanea, accompagnata da penalizzazioni sull’importo della pensione per chi decideva di usufruirne: per accedervi, il lavoratore deve accettare il ricalcolo della pensione interamente con il metodo “contributivo” vedendosi ridurre, in certi casi anche in misura considerevole, l’importo della pensione.  

Questo aspetto ha ridotto il numero dei richiedenti e ha messo in luce un limite di fondo: la flessibilità introdotta non era strutturale, ma piuttosto un “ponte” pensato per agevolare quegli specifici lavoratori con lunghe carriere contributive ma non sufficienti a soddisfare i requisiti della pensione anticipata.

Opzione Donna: una misura ridimensionata

Altro capitolo riguarda Opzione Donna. Introdotta in passato come misura temporanea, da rinnovare anno per anno, è stata più volte prorogata e modificata

Con il governo Meloni, le condizioni di accesso sono diventate più restrittive, limitando la platea a lavoratrici coinvolte in precise situazioni (caregiver, riduzione della capacità lavorativa, occupazione in aziende per cui è attivo un tavolo di crisi).

Anche in questo caso, l’intenzione politica di garantire uscite anticipate si è dovuta confrontare con l’esigenza di contenere la spesa, generando un certo grado di malcontento nei settori del mondo del lavoro femminile.

Pensione di vecchiaia e anticipata contributiva 

Come si è già accennato, tra gli obiettivi iniziali del governo vi era anche quello di intervenire a tutela delle future generazioni, cercando di attenuare gli effetti più penalizzanti della riforma Fornero nei confronti dei cosiddetti “contributivi puri”, ossia quei lavoratori che hanno iniziato a versare contributi dopo il 1° gennaio 1996.

La premier Meloni dichiarava infatti:

“ [...] una misura che abbiamo introdotto è stata quella di eliminare il vincolo che prevedeva che chi era nel contributivo potesse andare in pensione, una volta raggiunta l’età prevista, solo se l’importo della pensione era pari almeno a 1,5 volte la pensione sociale.”

In pratica, se la pensione maturata con i propri contributi risultava inferiore a questa soglia, non si ha più diritto ad andare in pensione al compimento dell’età stabilita, ma si è costretti ad attendere oltre i settant’anni”.

In questo passaggio, la premier faceva riferimento ai requisiti di accesso per la pensione di vecchiaia, ovvero: 

  • 67 anni di età (requisito che si innalzerà nel corso degli anni)
  • 20 anni di contributi alle spalle

ma per “contributivi puri” (coloro che hanno iniziato a lavorare dal 1996 in poi) si prevede una condizione aggiuntiva:

  • fino al 2023, l’assegno pensionistico finale doveva essere almeno pari a 1,5 volte l’importo dellassegno sociale (la pensione sociale non è più in vigore dal 1° gennaio 1996), soglia che nel 2024 è stata ridotta a una volta l’assegno sociale (oggi, pari a € 7.002,84 annui). 

Se non si raggiunge tale livello minimo di pensione, il soggetto dovrà attendere di maturare i requisiti per la pensione di vecchiaia contributiva a 71 anni e con almeno 5 anni di contribuzione effettiva. 

Non si è provveduto, quindi, all'eliminazione di quell’ulteriore vincolo che lega l’importo minimo della pensione all’accesso alla pensione, ma lo si è attenuato abbassando la “soglia” di riferimento. 

Un meccanismo analogo, ma più stringente, è previsto per la finestra pensionistica conosciuta con il nome di pensione anticipata contributiva prevista, ad oggi, unicamente a favore dei lavoratori a cui viene applicato integralmente il metodo contributivo. 

Questa misura prevede, infatti, la possibilità di accedere alla pensione avendo:

  • cominciato a lavorare dopo il 31/12/1995;
  • 64 anni di età (requisito che si innalzerà nel corso degli anni)
  • almeno 20 anni di contributi alle spalle.

Anche in questo caso, si aggiunge una ulteriore condizione:

  • avere un assegno pari, almeno, a tre volte l’assegno sociale (circa 21.000 lordi annui).

Un criterio piuttosto impegnativo dato che per raggiungere tale obiettivo è necessario accumulare un montante contributivo di oltre 400.000 €, quindi avere una RAL (Retribuzione Annua Lorda) media nel corso della vita lavorativa di circa 35.000 € all’anno. Un risultato non alla portata di tutti. 

L’obiettivo dell’esecutivo era dunque quello di eliminare i vincoli di importo per l’accesso alla pensione

Tale intento si è però scontrato con due fattori determinanti: da un lato i limiti di spesa pubblica, dall’altro il funzionamento intrinseco del sistema, strettamente legato alle dinamiche demografiche del nostro Paese.

L’auspicata flessibilità, intesa come libertà del singolo di scegliere quando andare in pensione a prescindere dall’importo finale, deve, infatti, fare i conti con una realtà caratterizzata da un numero sempre minore di lavoratori attivi e da una platea crescente di pensionati

Introdurre finestre di pensionamento completamente libere, svincolate da criteri o “soglie minime”, rischierebbe di produrre effetti controproducenti: da una parte ridurre la base contributiva necessaria a finanziare le pensioni correnti, dall’altra accrescere la spesa assistenziale per sostenere chi percepisce pensioni troppo basse, in contesto purtroppo in  cui vi sono stringenti vincoli di bilancio pubblico. 

La rivalutazione delle pensioni e il nodo della perequazione

Sul fronte della tutela del potere d’acquisto, il governo ha agito modulando la rivalutazione degli assegni in base al loro importo. 

La disciplina generale, infatti, prevede un meccanismo di rivalutazione automatica delle pensioni (detta “perequazione”) differenziata in base all’importo della pensione. In particolare, la perequazione viene riconosciuta per fasce di importo lordo di pensione totale, secondo le seguenti percentuali:

  • 100% per chi percepisce una pensione fino a quattro volte il trattamento minimo. Questo significa che le pensioni al di sotto dei 2.400 € circa beneficiano della rivalutazione piena, garantendo una maggiore protezione del loro potere d'acquisto.

  • 90% per le pensioni comprese tra quattro e cinque volte il trattamento minimo. Qui la rivalutazione è leggermente ridotta, pur rimanendo significativa, per le pensioni annue tra i 2.400 € e i 3.000 € circa.

  • 75% agli assegni pensionistici superiori a cinque volte il trattamento minimo (3.000 € circa). Le pensioni più elevate subiscono quindi una maggiore riduzione della percentuale di rivalutazione.

Tale disciplina è stata tuttavia sospesa in via temporanea dal governo Meloni per il biennio 2023-2024 a valle dei picchi di inflazione registrati in quel periodo. Nel dettaglio, i trattamenti pensionistici in quel periodo venivano adeguati all’inflazione secondo i seguenti criteri:

  • fino a quattro volte il trattamento minimo (pari a 2.102,52 euro mensili nel 2023) la rivalutazione è piena, cioè al 100% del tasso di indicizzazione;

  • tra quattro e cinque volte il minimo (da 2.102,52 a 2.626,90 euro) la rivalutazione è riconosciuta all’85%;

  • tra cinque e sei volte il minimo (da 2.626,90 a 3.152,28 euro) la percentuale scende al 53%;

  • tra sei e otto volte il minimo (da 3.152,28 a 4.203,04 euro) la rivalutazione è pari al 47%;

  • tra otto e dieci volte il minimo (da 4.203,04 a 5.253,80 euro) l’adeguamento è fissato al 37%;

  • oltre dieci volte il minimo, infine, la rivalutazione si ferma al 32%.

Questa scelta di tutelare completamente le pensioni più basse e, al contempo, “penalizzare” quelle medio-alte con un adeguamento ridotto, si poneva l’obiettivo di rafforzare la progressività del sistema, proteggendo i più vulnerabili, ma ha aperto un acceso dibattito

Da un lato, chi la sostiene la considera un atto di giustizia sociale; dall’altro, molti pensionati con assegni medio-alti si sono sentiti danneggiati, ritenendo di avere comunque diritto a una rivalutazione piena. 

La questione evidenzia un dilemma classico: come bilanciare l’equità verticale, che mira a destinare maggiori risorse a chi dispone di meno, con l’equità orizzontale, che richiede invece di garantire pari possibilità e coperture assistenziali anche a chi ha redditi più elevati e contribuisce in misura più significativa al finanziamento del sistema attraverso il pagamento delle tasse.

Manovra 2025

Un’altra misura introdotta dal Governo Meloni all’interno della Legge di Bilancio del 2025 riguarda chi, in corso d’anno, ha iniziato per la prima volta a versare contributi all’AGO (Assicurazione Generale Obbligatoria), a forme sostitutive o esclusive dell’AGO e alla Gestione Separata INPS, potrà volontariamente scegliere di aumentare quanto versa all’INPS rispetto a quanto previsto normalmente. 

In concreto, sarà possibile aggiungere fino a due punti percentuali in più rispetto all’aliquota prevista: ad esempio, il libero professionistica in gestione separata INPS può valutare di incrementare il versamento dal 24% al 26%; il lavoratore dipendente, dal 9,19% all’11,19%

L’obiettivo della misura è quello di consentire un incremento del montante contributivo individuale e, di conseguenza, dell’importo complessivo della pensione futura. 

Tuttavia, è importante segnalare che la parte di assegno derivante dai contributi aggiuntivi non sarà considerata ai fini del raggiungimento delle soglie minime richieste per accedere alla pensione di vecchiaia o a quella anticipata.

In altre parole, l’incremento ottenuto grazie alla maggiorazione volontaria non potrà essere utilizzato per anticipare il pensionamento mediante, per esempio, la pensione anticipata contributiva: la quota corrispondente sarà erogata solo al momento in cui il lavoratore avrà maturato i requisiti anagrafici per la pensione di vecchiaia, attualmente fissati a 67 anni.

Riforma Fornero e prospettive future: il ruolo decisivo della previdenza complementare

Alla prova dei fatti, la promessa di rivoluzionare il sistema pensionistico, magari attraverso l’abolizione della riforma Fornero, non si è tradotta in un intervento strutturale. 

Le misure introdotte dal governo Meloni rappresentano oggi perlopiù deroghe temporanee, che lasciano intatta l’architettura di fondo della riforma del 2011.

Le ragioni sono molteplici:

  • Vincoli demografici: l’Italia ha una delle popolazioni più anziane al mondo, con un rapporto tra lavoratori attivi e pensionati in costante peggioramento. Anticipare massicciamente l’età pensionabile rischierebbe di rendere il sistema insostenibile.

  • Debito pubblico elevato: la spesa pensionistica rappresenta già oggi una delle quote più consistenti del bilancio statale. Qualsiasi intervento che ne aumenti il peso può compromettere i conti pubblici e la credibilità del Paese sui mercati.

  • Vincoli europei: le regole di bilancio dell’Unione Europea e i meccanismi di monitoraggio sulla sostenibilità delle finanze pubbliche non lasciano ampi margini a riforme espansive.

Per questi motivi, l’attuale governo (così come quelli che lo hanno preceduto) ha scelto la strada dei correttivi graduali, che cercano di rispondere al malcontento sociale senza minare la sostenibilità complessiva. È una linea politica prudente, ma che inevitabilmente espone l’esecutivo alle critiche di chi si aspettava un cambio di rotta radicale.

In un contesto in cui appare difficile immaginare una “rivoluzione” della previdenza pubblica a favore delle nuove generazioni, il ruolo della previdenza complementare assume un’importanza sempre più centrale: non solo come strumento di integrazione dell’assegno pensionistico, ma anche per superare eventuali soglie di accesso alla pensione o, in alcuni casi, per anticiparne l’età di ingresso.

In tal senso, l’attuale governo ha fatto un passo in avanti in questa direzione riconoscendo, per i “contributivi puri”, la possibilità di cumulare la rendita dei fondi pensione per raggiungere l’importo minimo necessario per accedere alla pensione anticipata contributiva e di vecchiaia.

La previdenza complementare non va dunque considerata semplicemente come un “optional”, ma come un vero e proprio tassello che si integra nel complesso contesto previdenziale. 

In questo senso, un ruolo cruciale spetta anche all’informazione e alla formazione: molti lavoratori italiani, soprattutto giovani, non hanno ancora piena consapevolezza di quanto sia importante iniziare presto a costruire una pensione integrativa.

Ciao Elsa partecipa attivamente a questo percorso di sensibilizzazione con le sue Chiacchiere di gruppo, appuntamenti online gratuiti che offrono uno spazio informale ma ricco di contenuti, pensato per dialogare e confrontarsi sui temi della previdenza.

In questi incontri affrontiamo con un linguaggio semplice e diretto le regole e le opportunità legate alla previdenza complementare, con l’obiettivo di chiarire dubbi, sfatare convinzioni errate e mettere a disposizione strumenti pratici per compiere scelte più consapevoli riguardo al proprio futuro pensionistico.

Link utili e approfondimenti

Condividi su